Intervista a mons. Pierbattista Pizzaballa
Nel maggio 2020, Sua Beatitudine mons. Pierbattista Pizzaballa ha ricevuto da Papa Francesco la nomina a Patriarca latino di Gerusalemme, incarico già svolto a partire dal 2016 in qualità di Amministratore Apostolico in periodo di sede vacante.
A fine agosto, mons. Pizzaballa ha fatto rientro a Cologno: ha incontrato i suoi famigliari, i nostri sacerdoti (tra cui anche don Rino) e la comunità tutta. È stato invitato in diverse parrocchie della nostra diocesi per presiedere alcune importanti celebrazioni, e ha incontrato gli allievi del nostro Seminario, poco prima della loro partenza per il pellegrinaggio proprio in Terra Santa. Prima di ripartire per il Medio Oriente, sabato 10 settembre ha festeggiato il suo sesto anniversario di ordinazione episcopale con una solenne Eucarestia celebrata nella nostra chiesa.
Durante il suo rientro colognese, mons. Pizzaballa ci ha dedicato del tempo per raccontarci dell’esperienza maturata negli anni trascorsi in Terra Santa, ma anche per fare il punto della situazione sulle trasformazioni che la Chiesa sta vivendo.
La Sua esperienza in Terra Santa inizia nell’ottobre del 1990. In tutti questi anni, alla luce dei vari incarichi che ha ricoperto, quali sono stati i momenti personali di svolta?
I ruoli hanno anche un ruolo personale, nel senso che ti cambiano la personalità. Il momento di svolta, in cui ho deciso di restare in Terra Santa e che ha cambiato il mio atteggiamento nei confronti della fede e della relazione con il Signore, è stato quello in cui sono andato a studiare all’Università Ebraica. I miei compagni erano tutti ebrei, ero l’unico cristiano. Quel contesto, quell’ambiente, l’amicizia nata con i miei compagni di classe, le loro domande, molto belle e sincere, da amici, su Gesù, sul Vangelo, sulla prospettiva cristiana, sugli eventi della vita, sulle sfide e la modernità, sono stati un momento di svolta. Le loro domande su Gesù, ad esempio, non sono mai state le mie domande su Gesù: le loro domande mi hanno costretto a dare uno sguardo diverso nella mia relazione con Gesù. Lì capisci anche il valore vero del dialogo interreligioso, l’incontro con chi è diverso da te come qualcosa che ti rende più forte, più solido e anche più libero.
Il tema del confronto ricorre spesso nei Suoi interventi…
Sì, un tema che è un po’ in crisi in questo momento. In Medio Oriente, ma vedo anche qui in maniera diversa e con dinamiche diverse, con tutte le crisi che ci sono, tra drusi, sciiti, sunniti, ebrei, musulmani, cristiani, ortodossi, l’orientamento non è quello dell’apertura ma del settarismo. Proprio per questo io sono convinto, invece, che bisogna continuare a insistere, non nel senso di un’apertura generica e acritica (anche questo è sbagliato), ma nel senso di un’apertura in cui ciascuno ha la sua storia, la sua identità, la sua tradizione, senza erigere barriere.
In più occasioni ha definito la Terra Santa come luogo di confini e di conflitti, di divisioni e di ferite, luogo in cui le relazioni sono logoranti e faticose, ma allo stesso tempo non smette mai di esortare le comunità ecclesiali ad aprirsi, a mettersi insieme, ad ascoltare e condividere, a conoscersi. Questo percorso di integrazione è tangibile? Sta portando dei risultati positivi o parlare di integrazione è ancora un’utopia?
Integrazione non è la parola giusta, forse è una prospettiva che avete voi qui, da noi le identità resteranno sempre molto distinte. Da noi la prospettiva deve essere quella di una convivenza pacifica e serena tra le varie identità e non di antagonismo e di contrapposizione, è questo il punto. E’ utopia o no? In questo momento se si va ad ascoltare la voce della strada è utopia, è molto lontana e non bisogna farsi illusioni, però bisogna continuare a crederci. Nonostante la storia sia piena di ferite abbiamo il dovere di richiamare tutti alla necessità di riconoscersi l’un l’altro. Il problema di fondo in Terra Santa è che c’è una terra e ci sono due popoli che vogliono la stessa terra. L’unica prospettiva è riconoscere che tutti e due hanno il diritto e ritrovare delle forme di coesistenza l’uno a fianco dell’altro, non ci sono alternative. L’unica alternativa è il conflitto.
Ha reso chiaramente il motivo per cui parlare di integrazione non è corretto. Forse noi siamo limitati al concetto di integrazione proprio perché non abbiamo fino in fondo questa esigenza di convivenza. Si sente molto la diversità tra gli appartenenti alle diverse religioni? Ciascuno entra nel mondo dell’altro o si rimane nel proprio?
Qui è un’unica società, da noi sono società diverse. La diversità si sente tantissimo, anche nella vita ordinaria. Chiunque vada in Terra Santa vedrà che, nella stessa città, il quartiere arabo e il quartiere ebraico hanno due stili di vita completamente diversi, anche le case sono diverse. Se una persona passa dal quartiere ebraico al quartiere musulmano vedrà due mondi diversi. Ci sono delle sovrapposizioni, non tanto nelle scuole quanto, ad esempio, nel lavoro e negli ospedali.
In Medio Oriente, negli ultimi trent’anni, questa reciproca convivenza è evoluta o almeno cambiata?
E’ cambiata tantissimo, c’è stato un regresso. Un tempo c’era ancora una speranza di cambiamento. Negli ultimi anni c’è stato un fallimento dopo l’altro: quello che si percepisce oggi è una mancanza di fiducia. La speranza è figlia della fede, se non c’è fede non c’è speranza. Bisogna ricostruire la fiducia ma è chiaro che non bastano le dichiarazioni. Questo non è il momento del raccolto, bisogna arare, seminare, attendere. La prossima generazione potrà raccogliere.
Quell’incontro/scontro con la modernità che il cristianesimo ha avuto in Italia negli anni Sessanta e Settanta, in Medio Oriente lo stanno recependo, subendo o insabbiando?
In generale tutto quello che è istanza di modernità viene respinto totalmente. Ci sono gruppi aperti ma sono gruppi totalmente irrilevanti dal punto di vista religioso. Ci sono tantissimi movimenti giovanili ma le dinamiche sono molto diverse da qui. L’elemento religioso definisce le diverse identità delle comunità. Si può anche essere atei, ma si è ateo ebreo, ateo cristiano, ateo musulmano. La partecipazione alla vita religiosa è anche partecipazione alla vita della comunità. Il concetto di laicità inteso secondo i canoni occidentali non esiste. L’identità religiosa è definita all’anagrafe, che tu sia battezzato o no nasci di una certa religione. Non esiste ovviamente il matrimonio civile, né tanto meno il matrimonio misto.
Il Sinodo che la Chiesa sta vivendo si pone, tra gli obiettivi, quello di far fiorire speranze, stimolare la fiducia, intrecciare relazioni. Come vede il rapporto tra Chiesa e Comunità in questo periodo storico? E’ fiducioso in una Chiesa propensa all’ascolto e all’accoglienza di scelte di vita che fuoriescono dal percorso ordinario, specialmente in ambito familiare?
Non è semplice rispondere in maniera breve. Innanzitutto, è chiaro che sta finendo un modello di Chiesa. Con quel modello di Chiesa anche il codice di linguaggio che usavamo un tempo oggi non funziona più. Siamo in un periodo di transizione, sta finendo un modello di Chiesa ma non finisce la Chiesa. Il punto di partenza non è la strategia, cioè cosa si deve fare per venire incontro alle famiglie. La prima domanda da farsi è cosa si deve fare e come per far conoscere Gesù, altrimenti sono solo strategie di mercato. Ed è chiaro che, dal momento che il nostro linguaggio tradizionale non è più molto compreso, dovremo usare dei linguaggi diversi, nuovi, comprensibili, ma che siano comunque coerenti con il Vangelo, con quello che dice Gesù. Quindi, l’accoglienza senz’altro, ma non può essere un sì generico, un’accoglienza generica. In un contesto molto individuale, molto personalizzato, che non vuole responsabilità, che non vuole impegni, che non capisce il per sempre, la Chiesa, senza aver la pretesa di essere accolta da tutti, deve imparare ad avere un atteggiamento cordiale, aperto ma non rinunciatario, con i suoi principi, che però devono essere chiari. Non ha senso parlare di valori non negoziabili, siamo forse in una fase di nuova evangelizzazione, bisogna ricominciare da zero.
E rispetto ai giovani?
Quello che ho detto vale soprattutto per i giovani. Credo che per i giovani sia importante, innanzitutto, sentire di essere accolti, amati, non respinti, però credo che abbiano anche bisogno di qualcosa di chiaro anche se magari non lo capiscono, non lo accettano, non sono d’accordo. Anticamente i cristiani erano una novità assoluta rispetto al modo di pensare del tempo, oggi dobbiamo tornare ad essere una novità, invece siamo percepiti come qualcosa di vecchio.
Tornando per un po’ di tempo in Italia c’è qualche cambiamento che ha individuato immediatamente?
Percepisco sempre di più un sentimento di stanchezza e di disorientamento che mi stupisce. Percepisco, anche confrontandomi con altri sacerdoti, la necessità di impostare in maniera diversa la vita della Chiesa, di trovare nuove metodologie, soprattutto dopo il Covid. La gente ha prima di tutto bisogno di sentirsi voluta bene, accolta. Tutto il resto viene dopo.
Sara Ranica